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PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - UN INCONTRO ECUMENICO DOPO QUATTRO SECOLI

INTRODUZIONE

Due avvenimenti di diversa ma significativa importanza caratterizzano per Papa Giovanni il 1960: la celebrazione del primo Sinodo Romano, e l'incontro con il capo della confessione anglicana, Dotor Geoffrey Fisher.
Il vento dell'ecumenismo si era levato potente anche nella Chiesa cattolica, con l'annunzio del 25 gennaio 1959. Gli ideali dell'unione, le preghiere e le iniziative, i gruppi e i movimenti che cercavano di porre le basi per iniziare i contatti con i «fratelli separati», dopo quell'annuncio, non dovevano più essere responsabili in proprio, esposti a tutti i rischi della genericità e dell'isolamento, ed anche a tutte le smentite, più o meno dirette, del «vertice». La «base» poteva guardare in alto, e cominciare a sperare nei frutti della propria ostinazione evangelica. Ora era proprio il «vertice», e nella persona e nella voce stessa del Papa, ad assumere e riscattare tutte le iniziative oneste, collocandole con spontaneità, nella prospettiva più giusta.
Passeranno pochi mesi, e i protestanti e gli ortodossi non saranno più guardati e giudicati come «eretici» o «avversari», comunque competitori temibili nell'evangelizzazione del mondo. Saranno i «fratelli separati», cioè coloro che è giusto invitare a tornare nella casa comune, ma che è anche giusto accogliere sulla stessa loro strada, anziché sulla porta sicura della casa.
Poco più di vent'anni prima un Papa, in perfetta buona fede, aveva definito i protestanti come una «quinta colonna» sul terreno legittimo della Chiesa cattolica. Si trattava di Pio XI, che pure era stato riconosciuto, con ogni ragione, come uno dei pontefici più zelanti per quanto riguardava la attività missionaria della Chiesa, e, in un certo senso, anche per la presa di contatto di essa col mondo contemporaneo. Questo può aiutare a capire come l'evoluzione dell'idea ecumenica - tanto rapidamente evolutasi negli ultimi dieci anni - abbia sopportato, al vertice, un sì lungo ritardo nei suoi sviluppi.
In tale sviluppo sono importanti tanto i gesti e gl'incontri preliminari quanto gli approfondimenti e le chiarificazioni dottrinali. I primi aiutano gli uomini a conoscersi e stimarsi, a nutrire la grande speranza del ritorno all'unità, che è il desiderio stesso di Cristo; i secondi tolgono tutte le facili illusioni, e salvano dal rischio sempre possibile della confusione dei principi e del qualunquismo ecclesiale.
L'incontro fra Papa Giovanni e Sua Grazia Geoffrey Fisher, Primate della Chiesa Anglicana, avvenne il 2 dicembre del 1960. Con l'ingresso in Vaticano dell'arcivescovo anglicano di Canterbury finiva, almeno al vertice, se non altro lo sdegnoso silenzio, che aveva separato, per quattro secoli, un grande paese cattolico dalla Chiesa di Roma. Los von Rom, il motto degli «antipapisti» più intransigenti, non aveva più senso. Anche la confessione anglicana si era resa conto che con Papa Giovanni c'era da umiliarsi, anche se si fosse giunti ad un incontro di uomini rappresentativi. D'altronde la visita di Geoffrey Fisher non era ufficiale nel senso che si dà di solito a simili incontri: era una «visita di cortesia». Papa Giovanni stesso, quando volle commentare il senso di quell'incontro, a visita terminata, disse: «Siamo rimasti sulla soglia dei grandi problemi». Sulla soglia, ma già con la porta aperta; la stessa porta per la quale sarebbe passato, sei anni dopo, il successore di Fisher, Arthur Ramsey, in visita a Paolo VI.
Il ghiaccio era rotto definitivamente, gl'incontri ed i contatti diventavano normali, anche se nessuno, giustamente, pensava di aver fatto un vero e proprio passo avanti nel cammino dell'incontro fra le Chiese. Quattro secoli di discordia sono molti; un atto d'amicizia e di cortesia, per quanto simbolico e augurale potesse essere, non li poteva cancellare di colpo. Ma Papa Giovanni, ancora una volta, aveva cercato più ciò che unisce che ciò che divide gli uomini. Aveva cercato gli uomini. Poiché aveva scoperto e fatto scoprire agli altri che uomini dalle idee più contrarie fra loro possono coesistere, comunicare e collaborare nelle iniziative di fondo che tendono a salvare l'uomo e la società in cui vivono.
Sembra che il Dr. Fihser, appena apparve sulla soglia Papa Giovanni che gli andava incontro, abbia detto, non senza un grano del classico umorismo inglese, e magari per coprire la commozione del momento: «Santità, sono quattro secoli che non ci vediamo!». Vedersi: ecco l'inizio del nuovo «ordine di rapporti umani», quale sarà riconosciuto, più tardi, all'inizio del Concilio, come la situazione oggettiva in cui ai cristiani è chiesto di imparare a decifrare con sempre maggiore acume i «segni dei tempi». Non vedersi significa potersi anche odiare, comunque non comprendere: soprattutto ignorare che è poi la cosa peggiore tra fratelli della stessa fede, la quale si basa sempre sulla comunione reciproca.
Nella Chiesa cattolica, dopo i tentativi del «movimento di Oxford», poche altre iniziative avevano potuto vivere ed affermarsi. Occorreva l'avvento di Papa Giovanni sulla cattedra di Pietro perché ciò che era vasta esperienza protestante diventasse anche iniziativa cattolica.

UN SANTO SENZA MIRACOLI

Il 26 maggio Papa Giovanni canonizzava san Gregorio Barbarigo. Era un santo che Roncalli conosceva bene, poiché era stato per 6 anni vescovo di Bergamo e per 33 di Padova e del quale si era fatto devoto, oltre che ammiratore. Da Venezia aveva avuto modo di misurare lo spirito e la santità del Barbarigo vescovo di Padova al quale guardò sempre come ad un esempio di attività pastorale e di spiritualità.
La causa del Barbarigo era ferma da 200 anni anche se la «eroicità» delle sue virtù era stata provata con regolare processo di beatificazione. A suo tempo c'erano stati anche i miracoli. Papa Giovanni decise, con tutta la propria autorità, di procedere alla canonizzazione. Quello era un santo che lui conosceva, e questo bastava.
Il rito, in san Giovanni in Laterano, fu solennissimo. E Papa Giovanni fece un discorso pieno d'entusiasmo, tratteggiando la figura esemplare del grande vescovo che aveva visto e affrontato tutto «con grandezza di proporzioni». San Barbarigo aveva atteso molto la canonizzazione. Papa Giovanni lo fece osservare chiaramente, nel proprio discorso: «In verità la Provvidenza dispose che un assai lungo tratto di età si interponesse fra il suo morire in Padova nel giugno 1697 e la presente sua esaltazione aureolata in questo maggio 1960 del fastigio della canonizzazione. Ma a ricercare bene a fondo ci è facile scorgere, anche in questo ritardo un disegno di bontà celeste che tutto dispone a richiami e ad ammonimenti salutari per la presente generazione. I progressi delle scienze moderne, lo scoprimento di insospettate energie messe a servizio della vita presente vengono creando un tal quale incantesimo circa il facile misurarsi dello spirito colle asprezze immanchevoli che la volontà decisa di fare onore alle proprie responsabilità individuali e collettive, deve saper superare o soffrire».
«Questo nostro S. Gregorio Barbarigo - continuava il Papa - fu un prelato moderno nel senso più giusto e ampio del termine. Vescovo di Bergamo, ed a mezzo secolo di distanza da san Carlo Borromeo, ne fu imitatore mirabile nell'applicazione della legislazione postridentina, al reggimento della diocesi. Passato a Padova, ed ivi pastore infaticabile di quel gregge per trentatré anni, vi fece fiorire una ricchezza di istituzioni ecclesiastiche, di cultura, di assistenza, di apostolato, da rendere veneratissima la sua persona e immortale il suo nome, anche per i secoli che succedettero al suo così operoso passaggio. Prelato di alta cultura scientifica, di fisica e di matematica, strettamente intesa, di letteratura latina, italiana e delle diverse lingue di Europa e di Oriente: vigile a tutte le forme più penetranti dello zelo pastorale, egli fu davvero un grande personaggio dei tempi suoi. Ma sotto il velo prezioso della sua modernità egli coltivò innanzi tutto uno spirito squisitissimo di santità autentica, purissima che gli permise di conservare l'innocenza battesimale e di crescere di anno in anno nell'esercizio delle virtù sacerdotali più alte e edificanti».
In quel santo, insomma, Papa Giovanni vedeva uno dei tanti esempi di spirito e di stile pastorale, quegli esempi che non trascurava mai di frequentare, con lo spirito e la preghiera. Egli in realtà imparava da tutti, e il fatto di essere Papa, semmai, gli aumentava la gioia d'imparare dagli altri, felice se poi proprio il suo essere Papa gli dava la possibilità di ringraziare di quegli esempi. Come nel caso appunto di san Barnarigo, che fu ringraziato addirittura con una canonizzazione che esulava da tutte le classiche procedure ecclesiastiche.
L'abbraccio tra Giovanni XXIII e Monsignor Yoshimatsu Noguchi

IL PRIMO CARDINALE NERO

Il 28 marzo del 1960 Papa Giovanni tenne il terzo concistoro del suo pontificato. Il raggio del "senato" della Chiesa si allargava sempre più; il Papa non sembrava affatto preoccupato del numero, circoscritto a settanta dai suoi predecessori. Gli interessava una pienezza umana, geografica, veramente universale quale la Chiesa stava reclamando in quel particolare momento di grazia. Anche i criteri che lo guidavano in queste scelte sono chiaramente collegati all'idea e allo spirito del Concilio già deciso. Gli orizzonti si allargano, paesi sempre più "nuovi" vengono ad essere rappresentati al vertice della Chiesa, nelle sue più interne e delicate strutture. L'università non è più soltanto un carattere misterioso e profetico che deve attuarsi gradualmente coi tempi: è anche il criterio preciso di questo Papa che sente d'essere stato chiamato a dilatare in famiglia di Cristo l'umanità intera.
Nessun paese, nessun popolo, com'è accaduto per secoli, deve avere complessi d'inferiorità nei confronti della Chiesa. Non ci saranno più nemmeno in senso stretto, paesi "missionari" e paesi "non missionari". Ogni terra, da quelle cristiane per tradizione di secoli, a quelle non cristiane dove la Chiesa, nei suoi apostoli, continua la divina avventura dell'evangelizzazione apostolica, è "terra di missione"; e questo per un semplicissimo motivo: perché la Chiesa è missionaria per essenza, per natura, per vocazione, in quanto è la società di coloro che sono stati chiamati alla salvezza nel Cristo, ed hanno, in essa, la condizione e i mezzi per essere effettivamente salvi.
Col concistoro del 28 marzo il numero dei cardinali saliva a ottantacinque. Ma la novità consisteva soprattutto negli uomini che Papa Giovanni aveva prescelto. Erano sette, e, in ogni senso, venivano a perfezionare il carattere del collegio supremo della Chiesa. Erano Bernard Alfrink, primate d'Olanda; Rufino Santos, arcivescovo di Manila; Joseph Lefebvre, di Lilla; Peter Tatsuo Doi, arcivescovo di Tokio, e Luigi Traglia, pro-vicario di Roma e, finalmente, il primo cardinale di pelle nera, Laurean Rugambwa, di Bukolba. Fece impressione soprattutto quest'ultimo nome sull'opinione pubblica.
Se Alfrink rappresentava la punta più avanzata del cattolicesimo europeo quale si era venuto esprimendo ed affermando in Paesi a confessione mista, con Tatsuo Doi, con Santos e Rugambwa erano i Paesi "sottosviluppati ", tutto il Terzo Mondo cioè il mondo di domani - che si sentiva chiamato al vertice di una Chiesa che del vecchio mondo intendeva fare un punto di partenza per la testimonianza totale nel "nuovo".
Rugambwa portava sotto la porpora il mistero e la speranza dell'Africa proprio nell'anno che segnava il crollo definitivo, nel continente nero, del colonialismo europeo. Mentre le popolazioni indigene, sia pure attraverso errori gravissimi e contraddizioni sanguinose, raggiungevano la propria indipendenza, la Chiesa, con Papa Giovanni, concedeva loro, in un uomo della loro razza, il segno della sua stima e della sua speranza. La porpora, conferita a quell'uomo, in quel momento, non significava soltanto un onore di tipo tradizionale: significava anche il credito della Chiesa per quell'autonomia legittima e necessaria che tutti i popoli, e tutte le chiese locali, avrebbero dovuto assumersi per il futuro, soprattutto in vista della novità stimolante che sarebbe scaturita dal Concilio.
Alto, Laurean Rugambwa, era davvero un principe della sua gente, prima che un principe della Chiesa; solenne ed insieme dolce come gli esemplari più autentici del Tanganika, quando, più tardi, tornò nel proprio Paese coi segni della grande dignità, venne accolto dal suono dei tam-tam, che di foresta in foresta segnalarono il suo arrivo in tutto il paese. La Chiesa di Roma, la Chiesa dei missionari che tutti conoscevano, aveva donato loro, in un figlio della loro terra, un principe di Cristo. Un principe che era tale, e significava tante cose nuove, appunto perché negro. Un principe che restava povero, anche se vestito di scarlatto.
Papa Giovanni era stato felice di conferire la porpora a questi uomini "nuovi". Nei due discorsi del concistoro - quello del 28 marzo per la creazione dei nuovi porporati, e quello del 31, per l'imposizione della "berretta" - quella gioia è evidente. «Nel presente concistoro - disse il Papa nel primo discorso - come del resto nei due che lo hanno preceduto, prende un posto eminente la creazione di nuovi cardinali, eletti questa volta con allargamento anche più ardito di orizzonte sino ad arricchire il Sacro Collegio di distinti e benemeriti ecclesiastici che appartengono a notevoli porzioni del gregge di Cristo distribuito in regioni lontane ma fiorenti di vita e di promesse. Avremo perciò un cardinale del Giappone, uno delle Filippine, ed un terzo del Tanganika: tutti egualmente creati a gloria del Signore che santifica i popoli senza discriminazioni di lingua, di discendenza e di colore, a tutti facendo giungere la stessa buona novella... Questo avvenimento, nuovissimo in verità nella storia della Chiesa, non è che il suggello di un'antica dottrina, e di una tradizione seguita da due millenni dal punto preciso e registrato da libro degli Atti degli Apostoli di san Luca, che ci racconta del battesimo del potente ministro della regina Candace degli Etiopi per le mani del diacono Filippo, fino alla prodigiosa fioritura delle missioni cattoliche nel continente africano, a cui si volge il nostro sguardo e il nostro cuore con letizia confidente e serena».
Nel discorso ai nuovi cardinali, rispondendo al rituale indirizzo del card. Traglia, Papa Giovanni diceva: «I cardinali apparsi nella luce di questo concistoro sono sette di numero, e sette le berrette or ora distribuite. La novità che rende più grande la nostra consolazione ed in parte mitiga il nostro trepidare per il presente di alcuni Paesi e per l'avvenire religioso ed anche sociale delle giovanissime generazioni - novità particolarmente sensibili è la introduzione nel consesso cardinalizio dei figli del Giappone, delle Isole Filippine, del Tanganika; e il saperli accolti con riverenza e onore dai loro colleghi. Dal primo annuncio di questo avvenimento ne abbiamo raccolto da tutto il mondo gli èchi più festosi e plaudenti; per vie dirette ed attraverso la stampa e la radio, non solo da parte di figli nostri cattolici, ma anche di uomini di ogni provenienza e colore, che ebbero la cortesia di farci giungere espressioni che ci hanno tanto commosso». Nella comune letizia dei cuori il nostro spirito esulta poiché vede continuamente avverata la parola di Cristo: «E verranno dall'Oriente e dall'Occidente, e dal Settentrione e dal Mezzodì, e siederanno nel regno di Dio».
Il Papa non pretendeva di aver creato una novità nell'essenza; aveva semplicemente reso giustizia, dopo tanti secoli, a missioni benemerite e a Chiese gloriose. Lo disse chiaramente, sul finire del discorso: «Noi non teniamo a battesimo le vostre comunità: ma possiamo umilmente esultare nello spirito del Signore per avere trasmesso a voi, per la prima volta, il segno della dignità cardinalizia romana, con la certezza che essa, come è simbolo di unità con la Sede di Pietro così sarà seme fecondo di nuove affermazioni della nostra santa religione nei secoli avvenire. Il distintivo purpureo del cardinalato e un onore che noi rendiamo ai missionari ed al clero nativo che, attraverso fasi difficili ed eroiche, spesso di lacrime e di martirio prepararono l'alba di questa giornata felice».

NESSUNA TENTAZIONE DI VANITÀ

Tutto ciò che Papa Giovanni ha intuito, di geniale e di nuovo, è risultato splendidamente antico, cioè ricco dello spirito e delle vibrazioni delle origini. Guai a trascurare l'intimità religiosa, la temperie spirituale quale emerge dal Giornale dell'Anima: si rischierebbe di non comprendere nella maniera adatta tutto ciò che Papa Giovanni ha fatto, e, prima ancora, tutto ciò che Papa Giovanni è stato ed è tuttora per la Chiesa.
Per il 1960 gli appunti del Giornale sono poco più di due pagine. Ma si tratta di due pagine nelle quali lo spirito del distacco da ogni soddisfazione si fa più evidente e liberatore che mai, insieme al totale abbandono alla volontà di Dio.
Nel ritiro del novembre-dicembre 1960, in Vaticano, Papa Giovanni annota: «Il corso della mia vita in questi ultimi due anni - 28 ottobre 1958, 59-60 - segna un'accentuazione spontanea e fervida di unione con Cristo, con la Chiesa e col paradiso che mi attende. Reputo come indizio di una grande misericordia del Signore Gesù per me, questo conservarmi la sua pace e i segni anche esteriori della sua grazia, che spiegano, a quanto sento dire, la perennità della mia calma, che mi fa godere di una semplicità e mitezza di spirito, che mantiene sempre in ogni ora della mia giornata la disposizione a lasciar tutto, e a partire anche subito per la eterna vita. I miei difetti e le mie miserie mi sono motivo di interna continua umiliazione che non mi permette di esaltarmi in nessun modo, ma neppure affievoliscono la mia confidenza, il mio abbandono in Dio, di cui sento sopra di me la mano carezzevole che mi sostiene e mi incoraggia».
Intanto, dal 24 al 31 gennaio, si era tenuto il primo Sinodo della Chiesa Romana. Anche con questa decisione Papa Giovanni aveva inteso riaffermare il proprio carattere di Vescovo di Roma, e aveva voluto che per rendere la città di Pietro degna del sinodo universale vi si celebrasse prima il sinodo particolare. Era, oltre tutto, un atto di fiducia nel proprio clero, in tutti gli uomini responsabili delle anime della città detta "santa" per dignità e tradizione - persino salvaguardata in questo da un articolo del Concordato col governo italiano - ma bisognosa come le altre, e spesso più delle altre, di una pienezza di vita religiosa e di una coerenza con i principi cristiani che potesse servire d'esempio a tutti, indigeni e pellegrini che giungevano da ogni parte del mondo.
È bene dir subito - senza che qualcuno debba scandalizzarsi - che la fiducia riposta da Papa Giovanni nel Sinodo non fu affatto ripagata dallo svolgimento delle cose. Il Sinodo Romano - i suoi atti lo dimostrano a chiunque - non potrebbe mai essere considerato una specie di "prefazione" romana e locale al Concilio. È risultato piuttosto il frutto di una particolare visione della realtà romana e italiana in cui non hanno ancora influito né il "nuovo ordine di rapporti umani" né lo spirito e l'attesa del Vaticano II. Sembra si tratti del Sinodo di una Chiesa qualsiasi, dove non passano affatto le grandi tangenti e il lievito del pensiero cattolico più vivo.
L'apertura del Sinodo fu solenne. Era presente tutto il clero romano, e vi partecipavano ventinove cardinali. Si celebrava nella cattedrale del Vescovo di Roma, cioè in san Giovanni in Laterano. L'ottimismo di Papa Giovanni, nel discorso d'apertura, era più che esplicito e legittimo: «Lo spirito del Signore ci ha qui raccolti, in questa nostra sacrosanta basilica lateranense, per l'inaugurazione di un avvenimento destinato a segnare un'epoca novella nella nostra città e diocesi di Roma».

IL SINODO ROMANO

I tre discorsi sinodali di Papa Giovanni sono probabilmente sconosciuti a molti anche dei suoi ammiratori. Eppure, rappresentano un organico, mirabile trattato, in sintesi, di santificazione sacerdotale. E va detto con tutta semplicità che rappresentano quanto di più vivo e duraturo sia scaturito da quel Sinodo che tanto sembrava promettere. Il primo discorso è sul tema: La persona del sacerdote è sacra, la sua vita deve essere santa. Il secondo è sul tema: Nel sacerdote: la testa, il cuore, la lingua. Il terzo è sul tema: Doveri del clero romano e di Curia nell'esercizio del ministero pastorale. Discorsi che è facile ritrovare oggi in qualificati testi di meditazione, nei seminari e nei conventi, ma che restano, come si è detto, anche il momento più alto del Sinodo Romano.
Proprio davanti al clero due volte "suo", il Vescovo di Roma si lasciava andare ad un tono confidenziale, semplice, tutto spontaneità, che doveva stimolare i sentimenti più intimi e stimolare una chiarificazione della coscienza e della vita spirituale nel clero. Colui che aveva sempre desiderato, in più di venticinque anni di attività, di dedicarsi alle anime, ora, come vescovo, era felice di rivolgersi a coloro che erano i pastori del suo stesso gregge. Abbandonava ogni solennità esteriore, e non di rado giungeva a un tipo di discorso che aveva l'immediatezza dell'"a tu per tu": «Diletti fratelli e figli, non è qui dispiegato il mistero del nostro sacerdozio? Non è la luce del pastore divino che si dipinge sul volto di ogni giovane neo-levita nell'atto di levarsi dall'altare della sua sacra ordinazione e di iniziare il suo cammino sotto lo sguardo di Gesù, che sta alla porta del gregge, per dove le pecorelle entrano o escono pronte ai cenni di Lui? Figliuolo di umile e semplice ma onorata famiglia, non ti sei tu fatto prete ad un cenno di Gesù che ti ha toccato il cuore, forse fino dall'infanzia innocente, e ti ha chiamato al suo sacerdozio? Non è forse perché tu fossi tutto di Gesù, e venissi a Lui associato nel compimento della dilatazione del suo regno spirituale nel mondo? Ebbene, che cosa accade in te? Come mai, dopo le prime prove del tuo sacerdozio pensi ad altro che alle anime da salvare, che al ministero caratteristico per cui il sacerdozio fu istituito: cioè la pastorazione diretta delle anime?».
Alla conclusione, Papa Giovanni si accorse che un grande frutto c'era pur stato, anche in quel Sinodo: erano gli incontri del pastore coi suoi collaboratori, coi sacerdoti e i seminaristi, con tutti i responsabili della salvezza del gregge romano. Lo disse, nel terzo discorso, a chiare e consolate parole: «Venerabili fratelli e diletti figli! Non sappiamo dirvi di quanto godimento spirituale ci siano stati motivo questi incontri, questi semplici colloqui fra noi. Ci lasciano vivo il desiderio di poterli rinnovare a manifestazione dell'interesse con cui il cuore del Padre ama tenersi in contatto con quanti nella diocesi di Roma sono i compartecipi, ciascuno per la parte sua, del ministero pastorale delle anime».
L'impegno dei contatti egli lo avrebbe tenuto sino in fondo, ad ogni costo; e il popolo romano avrebbe scoperto davvero di avere ospite un Papa, ma anche stabile un vescovo che non manca quasi ogni domenica, negli ultimi anni - di prendere contatto con la sua gente.
Papa Giovanni guardava avanti, e confidava sulle anime "giovani" e più generose. Lo confidava proprio ai seminaristi romani, nell'incontro del 28 gennaio, appena chiuso il Sinodo: «Come ben sa la vostra anima, ardente di giovinezza e anelante alle messi che attendono, non siete a Roma per prepararvi ad un posto di privilegio: bensì a divenire i più pronti, i più esperti, i più umili, i più generosi collaboratori dei vostri vescovi, ed anche dei vostri futuri confratelli, che tanto affidamento fanno su di voi. È questo dunque il periodo più fecondo della vostra formazione».

«UN PAPA CHE CI CREDE»

Intanto Papa Giovanni continuava il suo "fare il Papa" nel modo più aperto e umano. Tutto ciò che compiva risultava subito, a credenti e non credenti, un atto di fede. Se non poteva essere giudicato proprio come un atto di fede in Dio, da chi problemi di fede non aveva, risultava sempre un atto di fiducia negli uomini.
In casa sua entravano gli uomini più disparati. Di passaggio da Roma per qualsiasi motivo politico, i "protagonisti" della politica internazionale, i detentori del potere o del denaro, stimavano, cristiani o non cristiani che fossero, che una visita al Papa fosse obbligatoria, anche per il solo prestigio che ne derivava. Quando poi uscivano da quella biblioteca dove un vecchio uomo fine e faceto li aveva guardati serenamente negli occhi, e li aveva presi spontaneamente per mano, si rendevano conto di aver respirato accanto al più libero, limpido e misterioso "protagonista" della storia contemporanea.
Passarono in udienza, fra gli altri, nel 1960, Manuel Prado, presidente del Perù; Arturo Frondizi, presidente dell'Argentina; Bhlumibol Adulyadej e Sikirit, sovrani di Thailandia, Harold Mc Millan, primo ministro inglese e molti altri. Le insegne, i seguiti, i cortei, i comunicati ufficiali, facevano sembrare questi uomini esseri pressoché speciali. Per Papa Giovanni - che sentiva con la stessa intensità il rispetto dell'uomo come tale senza specificazioni di potere, e la paternità universale che gli era stata conferita, essi non erano che uomini, anzi anime. Ciò non comportava nulla di tetro, di "edificante" nel senso deteriore del termine, in quegli incontri; anzi, se era possibile - e Papa Giovanni ha sempre capito d'istinto quand'era possibile - non mancava mai un sorriso, una nota arguta, quel sale d'umorismo gentile che è fra i segni caratteristici degli uomini liberi nello spirito, felici davanti agli occhi di Dio.
Il segreto di tutto ciò?
Lo ha colto forse meglio di tutti un uomo, un prete, un umanista che da Papa Giovanni ha sempre riscosso il dono della paternità in forma di amicizia: Don Giuseppe De Luca. Egli ha scritto: «Giovanni XXIII ha dato subito l'impressione di essere quello che è, ossia "un Papa che ci crede", come ci si esprimeva nell'Ottocento e come ci esprimiamo ora noi tutti, quanti veniamo sperimentando sempre di più, ad ogni giorno che passa, che uomo sia, che cosa dice, come lo dice. Non che gli altri Papi non ci abbiano creduto, o ci credessero di meno. Dio ce ne guardi e liberi! bruttissima cosa, far paragoni tra i santi, ma anche più indelicato, quando non sia perfido e astioso, istituir confronti e comparazioni tra l'uno e l'altro dei rappresentanti di Dio, siano i più umili o i più alti. Non si allineano contro un muro per misurarli i fratelli; non si giudicano, si amano. Né si pesano i superiori, si ubbidiscono. Purtuttavia mi sembra che si può sempre, senza far torto a nessuno, manifestare la nostra sorpresa, dire la nostra gioia per il fatto che Giovanni XXIII, sino dai primissimi giorni del suo pontificato, col suo stesso modo di benedire, di camminare, discorrere, affrontare la gente, ha dimostrato di voler gettare, nel suo essere Papa, tutto il suo essere uomo e cristiano, tutto il suo essere prete e vescovo, e ve l'ha gettato di fatto senza residui, senza riserve. È Papa, nient'altro che Papa. Pare una cosa da nulla, ma a pensarci è insieme una gioia per noi come è per lui uno sgomento di tutte le ore. Dal primissimo istante, da quando sul capo gli posarono il primo zucchetto bianco, il suo viso si mutò come per incanto. Era sempre l'antico volto, ed era già un volto nuovo. Da Cardinale Patriarca a Sommo Pontefice non era passato più d'un attimo, eppure, dall'uno all'altro, quanto divario, che mutazione!
«Chi crede nella parola di Dio, la compie. Giovanni XXIII, com'è un uomo di parola, così è un cristiano di parola: crede in quello che crede, e quando prega, sa con chi parla, e tien presente l'altra e uguale promessa: Omnis qui petit, accipit. Giovanni XXIII, nelle prime indicazioni che ci ha dato di quale sarà il viaggio del suo pontificato, ha insistito su elementi di fede. Egli è pastore e non può che essere pastore. L'ordinazione sacerdotale lo fece prete, la consacrazione episcopale lo fece vescovo. L'azione del sacramento fu azione di Dio. Iddio crea ciò che dice, fa quanto vuole e quando vuole. La creazione a Pontefice non ha nulla di sacramentale, ha anch'essa tuttavia un impegno esplicito da parte di Dio, una promessa solenne di Gesù: quella fatta a Pietro, e che tutti sappiamo dal nostro catechismo. Giovanni XXIII è tutto in questa sua divina investitura. Tale è stato prete, tale è stato vescovo, tale ci apparve dal primo suo saluto alla folla tumultuante dei figli, dall'alto della loggia di san Pietro; ci salutò come fa un bambino e un vecchio padre, e gli occhi si inumidirono di pianto e di fierezza, a vedere questo nostro fratello che, assunto di mezzo a noi in luogo e nelle veci di Cristo, non piegava sotto il grave peso, ma sorrideva: certo della grazia del suo Dio, confidente nella nostra obbedienza».
Tutto un pontificato come un solo atto di fede: ecco una chiave efficace per sperare di decifrare, almeno in parte, il "mistero" di Papa Giovanni, per svelare alla nostra gratitudine il suo segreto.
La sua fede diventava invito all'"in alto i cuori" per tutti, ma soprattutto per i pastori e per il clero. Il 1960 è un anno particolarmente dedicato appunto ai vescovi ed ai sacerdoti, nel pontificato di Papa Giovanni. Uno dei momenti più vivi e belli, fu certamente quello dell'8 maggio, quando consacrò quattordici nuovi vescovi provenienti da vari paesi di missione. Li vide come "opere di misericordia" viventi: «Siete quattordici di numero, come sono quattordici le opere della misericordia, che costituiscono tutte insieme il grande piedistallo su cui si adergono i trionfi della civiltà cristiana nei secoli».
«La Chiesa di Cristo - continuava il Papa - e con essa quanti ne condividono i palpiti di universale carità, è sempre presente dovunque si maturano le sorti dei popoli, dovunque si lavora e si soffre. Non è nata ieri. Da venti secoli vive e combatte non con le armi della violenza, ma con quelle della carità, della preghiera e del sacrificio: armi incomparabili ed invincibili: perché sono le armi del suo divino Fondatore, che nell'ora più solenne della sua vita disse ai suoi: "Fatevi coraggio, io ho vinto il mondo".»
Jean Guitton ha riassunto tutti questi elementi in uno solo: «Se qualcuno mi pregasse di definire la qualità principale di Giovanni XXIII, cioè il sommo talento che sta alla base di tutto, come lo chiamava Pascal, non avrei un attimo di esitazione nel rispondere: la semplicità. E in un certo senso nulla è più complicato della semplicità».